Il ‘Sepolcro Glorioso’ sotto l’altare della chiesa San Nicola di Bari a Ostia
Di Redazione il 23/02/2024
Nel periodo Quaresimale l'artista Ettore Frani mette in scena immagini avvolte da un segreto, da un’aura di mistero che sembra sul punto di svelarsi davanti allo sguardo di chi viene a visitare
La parrocchia san Nicola di Bari, in via Passeroni a Ostia, avrà l'opportunità di accostarsi al mistero della resurrezione di Gesù grazie ad un'esperienza eccezionale. Chiunque vi si recherà infatti potrà osservare sotto l'altare un'immagine speciale:
Si tratta di una Risurrezione. Sulla pietra del sepolcro è steso il telo sindonico. In un potente e contemporaneamente delicato poema della luce, un evento sta per accadere o è appena accaduto: il passaggio dalla morte alla vita.
L’opera Sepolcro Glorioso che il parroco don Salvatore Tanzillo mette in visione per tutta la comunità e la cittadina di Ostia è di Ettore Frani giovane ed affermato artista diplomato in pittura nel 2002 all'Accademia di Belle Arti di Urbino e nel 2007 specializzato in Pittura presso l'Accademia di Belle Arti di Bologna.
L'immagine si fonda sul concetto di attesa di una rivelazione, di un’epifania. Attraverso la tecnica dell’olio su tavola laccata e un finissimo registro stilistico calibrato sulla resa tattile dell’immagine, l’artista mette in scena immagini avvolte da un segreto, da un’aura di mistero che sembra sul punto di svelarsi davanti al nostro sguardo. Il raffinato plasticismo della sua pittura, ottenuto unicamente attraverso il colore nero, steso sulla superficie bianca del fondo con intensità diverse, crea, di volta in volta, profondità, atmosfere silenti, soffuse ed estranianti. Il suo opposto - il bianco - emerge così direttamente dal fondo: la sua presenza e la sua carica luminosa sono legate in questo modo a un preciso lavoro di «sottrazione» del nero che l’artista compie sulla superficie. Contrariamente a quanto accade nell’opera di Caravaggio, che dal fondo oscuro fa emergere alla luce le figure, è come se in Frani l’immagine emergesse invece dal bianco, dalla luce che incontra la materia opaca del nostro mondo, facendosi spazio, oggetto. (Andrea Dall'Asta)
"Una delle interrogazioni che ricorrono di fronte alla pittura di Ettore Frani, dentro al cuore della sua rivelazione, è se l'opera sia, nella sua essenza, una manifestazione simbolica o, al contrario, una pura concentrazione ermetica. Se, cioè, la sua proliferazione immaginale agisca come un rinvio a questioni che affondano nel mito secondo costellazioni già sperimentate o, per converso, rappresenti una prova colloquiale, un brano intrinseco al mistero dell'essere, alla sua esperienza cogente, vivissima, insondabile.
Il motivo per cui la prima ipotesi si mostra da subito come incongrua o, con ogni evidenza, insufficiente, è legato al fatto che nelle opere di un'artista come Frani, il più antico tra i moderni, si concentra tutta la potenza di una visione parziale e incondizionata. Un lacerto o brano rivelato sin dal suo nascondimento, a partire dalla negazione della sintassi, del procedere per premesse e conseguenze. Un metodo ellittico, il suo, capace di proiettare dentro l'ambulacro di un edificio immaginale una luce che permea i soggetti, li illumina e ne scaturisce intimamente. Un quadro-camera oscura dove la visione si compone come parte di un tutto. Ricettacolo di vita geologica, risultato di movimenti nello spazio e nel tempo in vista di un segreto sub-naturale all'incrocio tra mistero ed esperienza, cornice di irrealtà capace di renderlo immortale.
E l'assunto, allora, è questo: vive, in ogni opera di Ettore Frani, un'intuizione e non una profezia. La sua arte non parla del mistero o per il mistero, ma sgorga direttamente dall'intuizione della sua esperienza. C'è, in queste opere, tutte, dalla prima fase tra specchio e velo, alla seconda dei panneggi, sprofondata oltre il nascondimento, alle ultime di Terra Latte Luce e di Attrazione celeste, un furore e un movente profondo che conduce all'esperienza del mistero e delle sue intuizioni. Tanto che lo spazio in cui si apre per soddisfarne l'attesa non è una struttura vuota o, ancor peggio, astratta ma, semmai, l'estensione metafisica della sua intuizione, la sua dilatazione in profondità, regione interiore in cui viene calata l'esperienza dell'inesprimibile.
Materia di questa estensione è, fondamentalmente, la luce. C'è infatti una morbidezza, una ariosità, una fusione impalpabile di ombre radiose proprio lì dove il nero è pregno di luce. E l'emozionalità dell'opera non si risolve in un gesto definito, in un moto esatto; semmai nell'immagine dei moventi, delle spinte spirituali profonde.
Per questo siamo ancora all'interno della caverna dell'essere, sebbene in attesa e sulla soglia. Si tratta di una luce senza progetto, è ovvio, tutta interna allo sviluppo dell'esecuzione. Come se la velatura vincesse sulla prospettiva. Ma è una luce fattasi aria, densità luministica, atmosfera e corpo, intransigenza di forme. Perché spazio, tempo e luce raggiungano uno stadio di fusione paragonabile a un assoluto relativo, punto d'arrivo di un percorso artistico ed esperienziale insito in ogni opera.
La prospettiva, in questo contesto, non si rivela nella geometria delle linee ma nei rapporti di luce dati dalle sue velature. Lo testimoniano gli orizzonti alti, mai concepiti come panoramiche distese, prospettiche. E che rappresentano una materia nobile, vicina alla sostanza interiore dello spazio e della luce. Formando un piano che non ha spessore di superficie e non si oppone alla concentrazione della luce, ma la trattiene solo quanto basta per restituirle una sottile frequenza di vibrazione. Uno spazio profondo e aperto dentro la caverna del sub-naturale in cui si è immersi senza riparo dentro l'esperienza della visione.
L'antitesi di profondità e superficie non si dà come tale, ma come proporzione di valori non oppositivi. La luce è spazio senza intenzioni. Mentre le figure, testimoni di una visione annunciata e in fieri, capaci di imprigionarne le risonanze, ne sono attraversate, riempite; materia opaca, energia accumulata e compressa che si disperde nel gioco di superficie e profondità.
È la dimensione dell'essere a rappresentarne l'essenza fondamentale; l'ombra un piano inclinato di irradiazione. Figure illuminate dall'interno che danno il senso della loro verità, della loro essenza. E che, in questo spazio e in questa luce dalla medesima natura profonda, si comportano allo stesso modo. Figure che non occupano lo spazio, che non lo colonizzano ma, semmai, vi sbocciano come escrescenze colme di estensione. E il cui motore è una luce più piena, più insondabile. Così che il loro mistero chiama a farsi sperimentare nelle forme stesse dell'essere.
Il colore, altresì, o l'assenza del colore, si costituisce nelle opere di Frani come una media interiore tra due tonalità, tra due timbri. Vi si gioca la proliferazione delle intensità luminose atte a descriverne i fenomeni per una rivelazione di unità assoluta, immutabile.
Il tempo si fa spazio, fino ad escludere ogni successione. Le zone d'ombra vere e proprie macchie d'aria, lo spazio aperto un fondale immerso e, persino, sprofondato nell'opera, caverna dell'essere. Opera che a volte si pone sulla soglia, sul limite estremo oltre il quale rischia la negazione di se stessa. Linea oltre la quale la luce si spiegherebbe come elemento puramente naturale. Quando è invece in questa caverna dell'essere, in questo ventre metafisico, che le due tonalità sprigionano il loro senso più profondo. Universo senza colore, dove persino le sfumature più sottili, estensione delle verità intrinseche all'essere, incarnano un'origine fervida, cupa, inquieta." (Testo tratto dalla monografia Ettore Frani. Attrazione celeste. presentato in occasione della mostra omonima allestita presso Casa Natale di Raffaello/Bottega Giovanni Santi Urbino dic 2012/gen 2013 e Museo L’ARCA-laboratorio per le arti contemporanee Teramo mar/apr 2013)
Ma è proprio nel tempo e nello spazio che prende corpo il senso musicale dell'opera di Frani, a partire dal silenzio e dal tono interiore. Un rumore di preghiera e di trionfo, un'armonia condotta sulla traccia della caduta e dell'elevazione. Esattamente ciò che accade in Terra Latte Luce III, dove a una predella assorta nel silenzio e nella lontananza, si impone il fragore della resurrezione, cateratta d'acqua risorgente. E, con impatto visivo ancora più assordante, l'Attrazione celeste, vero paradigma dell'esperienza artistica dell'ultimo Frani, punto d'arrivo tra i più riusciti nella sintesi tra sguardo, luce e suono.
Tutto ciò secondo due direttrici essenziali, nel tempo e nello spazio. Perché è proprio questo movimento impalpabile a tradurre musicalmente il discorso pittorico di Ettore Frani in ritmo e in altezza. La pioggia come caduta ed elevazione, dai toni gravi del basso a quelli acutissimi dell'alto, per arrivare al ciglio di tenebra e luce, nota caparbia e lunga sotto il contrappunto della stellata, vero e proprio sciame sonoro e cristallino. Mentre il ritmo rilancia da profondità aeree, dal vicino al lontano perfettamente intersecantesi nell'alto e nel basso. Tanto che ogni particolare risuona nell'alternarsi di prossimità e distanza.".
Testo tratto dalla monografia Ettore Frani. Attrazione celeste. presentato in occasione della mostra omonima allestita presso Casa Natale di Raffaello/Bottega Giovanni Santi Urbino dic 2012/gen 2013 e Museo L’ARCA-laboratorio per le arti contemporanee Teramo mar/apr 2013
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