La Cassazione contro la restrizione in carcere per lo stupro di gruppo
Roma - La Cassazione dice NO alla restrizione in carcere per lo stupro di gruppo.
Le dichiarazioni del Presidente del Dipartimento sociale di Italia Garantista: "Sono indignata come donna e come vittima."
La recente sentenza della Corte di Cassazione , che ha stabilito non essere obbligatorio il carcere in presenza di reato per stupro di gruppo, ha di certo creato sconcerto e molta indignazione. La Cassazione ha ritenuto che i principi fissati dalla Corte Costituzionale, per i reati di violenza sessuale e atti sessuali su minorenni, siano applicabili anche alla violenza sessuale di gruppo, poiché questo reato “presenta caratteristiche essenziali non difformi” da quelle individuate per altri reati sessuali.
Cerasella Jica, Presidente del Dip. Sociale del Movimento Garantista, trovando questa sentenza un passo indietro verso il mondo delle donne, ha voluto raccontare la sua storia. Un fatto di violenza sessuale, accaduto venti anni fa.
"Avevo 24 anni, tre bambini, un bel lavoro, una bella casa e tutta la vita davanti. Un giorno decisi di prendere il taxi per andare in ufficio. Ma quel giorno la mia vita cambiò. Il tassista decise di uccidere i miei sogni, la mia spensieratezza, imprigionandomi in un incubo che è poi durato anni, nella prigione della paura. Lui mi sequestrò, mi violentò, mi picchiò. Riuscii a sopravvivere, a liberarmi, a denunciare e a cercare di ricominciare la mia vita. Contro i pregiudizi che iniziavano già in famiglia. Mia mamma, vergognandosi, preferiva raccontarsi e raccontare che era il mio amante, che sicuramente avevamo una storia, che lo avevo provocato. Un poliziotto mi disse che anche lui tradiva la moglie."
"Con la faccia gonfia di botte e di pianto guardavo incredula e non capivo. Come può essere? Io denuncio, chiedo aiuto per le violenza subite e vengo colpevolizzata? A casa, sfregavo la mia pelle per allontanare lo schifo che provavo. Il disgusto per me, perché a quel punto ci credevo anche io che fosse colpa mia, che mi ero meritata quel sudiciume. Ho smesso di parlarne. Solo la notte - continua Cerasella Jica - mi svegliavo tremante di paura, con l’incubo di lui che non mi dava tregua. Ho tentato anche il suicidio, non trovavo più pace. Dovevo punire la colpevole che la società, l’ignoranza ed i pregiudizi dei meschini avevano condannato: me stessa. Un giorno, tanto tempo dopo, però ho iniziato a raccontare a tutti il mio dolore, a lungo nascosto agli occhi del mondo. Ora non so se ho perdonato veramente e completamente, ma di certo sono serena e ne parlo, cerco di aiutare chi ha vissuto esperienze simili. Soprattutto cerco di far capire a chi ne è vittima, che non ha alcuna colpa. Solo così si può ricominciare a vivere da capo."
Cerasella è riuscita a riprendere in mano la sua vita, accompagnata a volte, e in altri casi procedendo a piccoli passi da sola. Ma molto spesso le donne che subiscono violenza cadono catturate dal vortice di mille paure, depressioni e sensazioni di vuoto che le fanno precipitare verso gesti insensati agli occhi dei più. E allora quante saranno state le madri, le sorelle, le giovani vittime a provare dolore e rammarico per questa decisione che continua a fare del connubio violenza-donna, quasi un atto non degno di essere punito con il carcere? Cosa bisogna presentare davanti gli occhi della Magistratura affinché decida di proteggere chi non merita violenza per il solo istinto animalesco di un gruppo, che non riesce ad essere frenato?
E questo è anche il pensiero del Presidente del Dip. Sociale, la quale continua dicendo: "Compito della magistratura non è forse far applicare le leggi che hanno il compito di proteggere e regolare la vita dei singoli nei confronti di altri? Quindi, non è normale allontanare dal vivere comune della società coloro che non ne sono capaci? Ricordo quando qualcuno sentenziò che portare i jeans era una colpa. Mi dissi, nel silenzio della mia paura e della mia vergogna, che anche io avevo i jeans quel giorno."
"Non dovrà mai esistere una giustificazione per un reato tale. Né un jeans, né una gonna, né il fatto che una donna abbia un corpo che suscita sensazioni degni di una bestia. Questa sentenza sarà l’ennesima violenza subita, sarà l’ennesimo passo indietro verso la non denuncia, sarà un ennesimo messaggio sbagliato verso chi pensa che un corpo sia un oggetto da usare e da buttare via. Nessun verdetto - conclude Cerasella Jiva - potrà mai ripagare una vittima da una violenza subita, ma altrettanto vero è che non emetterlo proprio, significa rendere i Magistrati complici di quelle stesse deturpazioni carnali. Il concetto di carcere facoltativo, di misure cautelari alternative vanno contro quei principi essenziali dei diritti inalienabili dell’uomo: il poter vivere liberamente di giorno e di notte, senza avere la paura di poter essere giustificatamente violentate da un branco di uomini."